22 anni fa

me lo ricordo benissimo, quel giorno. anzi, no: mi ricordo benissimo la mattina dopo. ero all’università – studente fuori sede: il meraviglioso buchino dove vivevamo noi tre gige non aveva la tivu. la tappa in edicola prima di entrare in facoltà, però, era d’obbligo. mi ricordo i titoli, le locandine: Falcone assassinato – una tonnellata di tritolo. mi ricordo le foto: le lamiere contorte, l’asfalto che sembrava non esserci mai stato, lì sotto. mi ricordo il dolore, il pugno allo stomaco, la sensazione di sconfitta. non come se fosse morto un parente, un amico: come se fosse morto un ideale, anzi, un’idea: l’idea di giustizia. avevo vent’anni – studiavo in un posto dove quell’idea era tutto. ricordo che mi sedetti sul marciapiede, a leggere, con le lacrime agli occhi.

nei giorni che seguirono, nelle settimane, nei mesi (perchè, poi, a luglio, arrivò anche Borsellino – e lì ero al mare, il compleanno di mia nonna), sembrò che si fosse risvegliata la coscienza giuridica di noi italiani. sembrò che si fosse ad una svolta. sembrò – davvero – che quella morte (quelle morti) fosse stata un autogoal per la mafia.

l’anniversario della morte di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca, degli uomini della loro scorta cade a tre giorni dalle elezioni. e io guardo le facce di molti dei nostri politici e mi chiedo quanto sia rimasto di quella voglia di giustizia, di pulizia.

perchè taccio

taccio perchè, se parlassi, mi sentirei un po’ come Indignata Anna (ve la ricordate Anna Meacci ad Avanzi?): sono incazzata col mondo. no, magari letteralmente no, ma ci vado abbastanza vicino: si parte dall’Ex per arrivare ai politici, passando per i genitori di qualche compagno di classe del Mio Piccolo e quella simpaticona di Emo. nera, insomma.

ma il mio blog così solo e silente mi fa tristezza. e, allora, ieri sera, mentre cucinavo, mi son detta che vi avrei messo una ricetta. anzi, due, perchè son venute bene.

PANE NAAN E STUFATO BRUTTO DI VERDURE

la combinata nasce dal fatto che avevo promesso ai miei amati figlioli di fare le crepes con il ragout (abbinata curiosa? provate: i miei le adorano), ma, al momento di inziare a spadellare, mi sono accorta non solo di non aver tirato il ragout fuori dal congelatore (perchè a quello, forse, avrei anche potuto rimediare), ma non avere nemmeno un uovo. neanche mezzo. e, pare, per fare le crepes sono abbastanza utili.

onde evitare le ire degli eredi, ho deciso di svoltarla in “cena etnica” e mi son buttata sull’indiano. il labna fatto con il nostro yogurt c’era già: si trattava di abbinarci qualcosa. primo, i naan.

il naan è il pane tipico indiano, fatto con farina e ricotta. ricorda un po’ la piadina, ma è più leggero e si gonfia in cottura (anche se, dalle mie foto, non sembra). ci si mette un attimo.

in 200 g di yogurt a temperatura ambiente (io l’ho scaldato pochi secondi nel micro), sciogliete una bustina di lievito secco (in questo caso, istantaneo, ma con quello normale vengono meglio). aggiungete 400 g di farina 0 e 10 g di sale. impastate bene. il mio yogurt è liquido, quindi non serve aggiungere niente: se l’impasto non vi risulterà liscio ed elastico, aggiungete poca acqua. lasciate lievitare (‘na mezz’oretta, se è quello istantaneo, fino al raddoppio, se non è lievito istantaneo).

formate delle palline (con questa dose, ne vengono 10), grosse poco meno di una palla da tennis. stendetele bene, una per volta, come fareste per la pizza (quindi, senza mattarello, in modo da tenere i gas della lievitazione all’interno). scaldate una padella antiaderente (a meno che non siate dei ricchi possessori di testo) e cuocetele una alla volta, 4-5 minuti per lato.

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tagliati a metà, a tasca, per capirci, vanno farciti con il labna e con lo

STUFATO BRUTTO DI VERDURE

ho tagliato a listarelle mezzo capuccio e un peperone rosso e le ho messe in padella con un cucchiaio d’olio e mezzo bicchiere d’acqua.

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ho cotto a fiamma bassa e coperto per una decina di minuti, poi ho aggiunto 3 cucchiai di aceto balsamico, poco sale e un cucchiaino di zucchero di canna e ho cotto per altri dieci minuti.

l’aspetto è orrendo, ma il sapore è ottimo!

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comfort food

è con sommo stupore, quasi con sgomento, che apprendo che non c’è una giornata mondiale della pentola a pressione. vergogna. dovrebbe. la pentola a pressione è la santa protettrice delle madri lavoratrici, specie se appaiate a personaggi di dubbie abilità culinarie (per quanto ci metta impegno, Lui, eh!) e se pococarniane (che non è proprio proprio vegetariano: è un latto-ovo vegetariano che, qualche volta, ci casca), che non vogliono allevare i figli solo a pasta in bianco. la pentola a pressione è bella, sbrilluccicosa, rumorosa quel tanto che basta a tenere gli animali di casa lontano dalla cucina e, soprattutto, rapida. insomma, meriterebbe una giornata tutta per lei, ecco.

va bene, detto questo, passiamo oltre. ieri avevo bisogno di comfort food: giornata pesantissima, al lavoro, di quelle in cui ti affidano un neonato in crisi di astinenza, per dire, e tu non hai neanche il tempo di farti domande (ma le risposte te le dai, eccome, e non ne esce bene nessuno) e torni a casa che vorresti solo un bagno caldo, il pigiama e la mamma (o, meglio ancora, la nonna) che ti porti uno dei tuoi piatti preferiti e un sorriso. solo che, quando arrivi a casa, la mamma (perchè le nonne, ormai, ce le siamo giocate tutte e due) ti saluta di corsa, perchè è stanca di gestirti i figli, che ti molla tendenzialmente isterici e litigosi assai. ciao, bagno caldo. ciao, coccole. ti infili in doccia solo per toglierti di dosso l’odore del giorno ed esci per vestire i panni della mamma perfetta.

ma volevo qualcosa di caldo, buono, consolatorio, uno di quei piatti che ti portano indietro nel tempo, quando eri solo quella da coccolare. ci sono quattro ingredienti che – soli – possiedono la capacità di riportarmi lì: il latte, le uova, il riso, le patate. non insieme. o insieme, ma non tutti insieme. o anche tutti insieme, ma mi sto incartando e mi fermo.

intanto, volevo un dolce. ma non solo. volevo un secondo verduroso, ma potaccioso. e delle uova.

ho preso la pentola a pressione e mi sono lanciata nel comfort food per eccellenza (assieme alla crema calda in tazza, ma quella un’altra volta), quello che o si ama (io lo amo) o si odia (Lui: pare che sua mamma, una volta trovato qualcosa che le veniva bene, lo rifacesse all’eccesso. si narra che i quattro fratelli mangiassero lo stesso piatto per mesi, poracci): il risolatte. ma diverso, perchè mi sentivo “esotica”, quindi, un

RISOLATTTE CON MELA aka VOMITINO

l’aspetto, in effetti, era quello, come carinamente mi hanno fatto notare i miei figli. ecco perchè questa ricetta non avrà foto. oh. (però, se lo fate, non aspettatevi che venga bello, eh?! buono sì, molto, ma bello no, neanche un po’).

prendete una mela, la più triste tra le mele che avete nel piatto della frutta. la mia era rossa. e triste, molto, e rugosa. l’ho lavata e tagliata a pezzetti, senza sbucciarla (perchè era bio e perchè, nella mia assoluta insiepienza, avevo deciso che il rosso sarebbe rimasto rosso. illusa). l’ho messa nella pentola a pressione con 200 g di riso arborio, 700 ml di latte, 3 cucchiai di miele millefiori e 1 pizzico di sale fino. bella mescolata, chiuso tutto e cotto per 10 minuti dal fischio.

delizioso. marroncino vomito, ma delizioso. da mangiare tiepido.

visto il risultato (esteticamente non perfetto, lo ammetto), il Mio Grande ha iniziato a rognare che lui quella pappetta lì non l’avrebbe mangiata e perchè non fai qualche dolcetto più sfizioso e di qua e di là.

due palle. non avevo nè il tempo nè la voglia di far dolci (tra l’altro, mancava ancora tutto il resto della cena ed era tardi). che palle. ho preso un pandoro, che Lui, che dello spirito del Natale coglie solo il lato mangereccio (è il fratello del Grinch, praticamente) aveva comprato. l’ho aperto e tagliato a stelle. infornate le stelle a 100° per una ventina di minuti e farete felice il più rompiballe degli adolescenti con i

PANDOROTTI

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vi consiglio di tagliarli a spicchietti, una volta biscottati.

mancava, però, si diceva, il resto della cena.

ho preso il Mio Piccolo e l’ho messo a pelar patate. due, ma belle grosse. intanto, dopo aver rischiato l’ustione lavando la pentola a pressione, curavo due carciofi, belli grossi pure quelli. li ho tagliati a tocchetti, rosolati con poco olio d’oliva, spolverizzati con un cucchiaino scarso di dado granulare e coperti con mezza tazzina da caffè di acqua. ho chiuso e cotto 5 minuti dal fischio.

fantastici

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li abbiamo mangiati con le uova, abilmente strapazzate dal Mio Grande (costretto a forza ad allontanarsi da whatsapp).

insomma, alla fine, i miei comfort food li ho avuti.

mancava la crema, però…

i cordoni della borsa

io non so se credo in dio. ci ho creduto, poi la vita mi ha preso a schiaffi un bel po’ di volte, togliendomi persone che amavo, ferendone profondamente altre. adesso non lo so se ci credo. diciamo che, più che atea, sono un’agnostica speranzosa: ci sono cose, ci sono momenti, nella vita, che mi fanno pensare – sperare – che non possa essere tutto qui. in altri, però, mi dico davvero che tutto dev’essere legato al caso, se no, certe cose non succederebbero.

per questo, stamattina, mi sentivo parecchio ipocrita ad essere lì http://www.adnkronos.com/IGN/News/Cronaca/Papa-labbraccio-di-Francesco-a-tremila-malati-affetti-da-malattie-rare_32857680876.html

ma, per la Canterina, questo ed altro (e poi, vi confesso che quell’uomo mi piace, per il momento).

detto questo, pur continuando a sperare che Lui ci sia, che fosse solo molto distratto, ma che, adesso che il Suo emissario in terra ci ha incontrati, decida di guardare anche ai malati di malattie genetiche rare, decida che lo scherzo è durato abbastanza e che, da adesso, tutto girerà per il verso giusto, trovo che sia giusto confidare nella scienza. in tutti quei ricercatori che studiano, che cercano una spiegazione, una soluzione, una cura.

quindi, amici cari, son venuta a batter cassa: allentate i cordoni della borsa: la malattia della Canterina non sarà di certo tra le prime che riceveranno i fondi telethon (nella sfiga, ne abbiamo scelta una che è proprio proprio rara), ma, chissà, se i fondi abbondassero…

son sempre i migliori i primi che se ne vanno

e il fatto che lui c’abbia messo così tanto a morire ne è una prova ulteriore.

priebke

lo so: non si gioisce della morte altrui, ma l’idea che abbia vissuto sereno tutti questi anni, che abbia potuto ridere, sorridere, come in questa foto, con quel che aveva fatto… va bene, allora, se insistete, non mi metterò a saltare e ballare dalla gioia, ma non mi impedirete di dire che, adesso, il mondo è un posto un po’ migliore.

la Giuliana e gli appunti di storia

mi ricordo che stavo mangiando il caffè latte col pan biscotto… guarda te, che cose ti ricordi… il mio papà ascoltava il giornale radio: hanno detto “longarone non c’è più”.

longarone non c’è più. hanno detto così? cazzo. cos’hai pensato?

che la Giuliana abitava lì. studiava qui, con me. viveva in collegio dalle suore, ma era tornata a casa perchè stava male. le avevo mandato gli appunti di storia il giorno prima, con sua sorella grande, che tornava a longarone in treno. ho pensato solo questo: la Giuliana – i miei appunti.

non l’hanno più ritrovata. lei e molti altri.

cinquant’anni fa, a quest’ora, il mondo scopriva che longarone non c’era più. il mondo e noi veneti, parte dei quali avevano amici e parenti lì. ieri sera ho fatto vedere al Mio Grande il film Vajont – la diga del disonore. un pugno nello stomaco (pure lui, adolescente anaconda in fase cretina, mi si è raggomitolato contro, sul divano), ma credo fosse giusto. la natura è crudele, è vero, ma ‘sta volta la natura non c’entrava niente: è stata l’ingordigia, la superficialità, l’ipertrofia dell’ego di certi personaggi a cancellare 2105 persone dalla faccia della terra. e io credo che gli adulti del futuro debbano sapere, ricordare. e debbano anche vergognarsi un po’, quando i titoli di coda ricordano che i colpevoli di tutto questo si son fatti un anno di carcere e bona lì.

guardatelo, se non l’avete visto. (peccato solo che Tina Merlin parlasse in romano).

la fortuna è un fatto di geografia

lampedusa

questo è un blog leggero, cretino, a volte. ma a me ‘ste cose chiudono lo stomaco.

ho un’amica che è arrivata in italia coi barconi, millemila anni fa, dall’albania. è stata fortunata: qui ha trovato un lavoro, l’amore, ora ha una bella famiglia, vive in una bella casa ed è anche riuscita a finire gli studi. un’estate – eravamo al mare assieme – suo figlio piccolo prese un canottino e iniziò a remare verso il largo. ma no!, gli gridò dietro lei, con tutta la fatica che abbiamo fatto a venire in qua, adesso tu torni in albania?!

rideva. poi, però, la sera, mi ha raccontato. un racconto carico di angoscia, di paure che puzzano, di quelle che le senti ancora anni dopo. di lei e il fratello che tagliavano i capelli a zero alla sorellina sedicenne, troppo carina per affrontare un viaggio come quello se non camuffata. a volte, lo sogno ancora. era la sola cosa possibile, la sola salvezza. suo padre era detenuto per motivi politici. ora è qui, vive con lei. ha perso tutti i denti, in carcere, ma non vuole la dentiera perchè i suoi nipoti devono sapere, i suoi figli devono ricordare ogni giorno.

mi chiedo cosa sognassero, da cosa scappassero, cosa abbiano pensato negli ultimi istanti. morire a pochi metri dalla meta, morire nelle acque di uno dei più bei posti del mondo, morire di fame, di disperazione. di sfortuna.

la sagrada familia e il ruolo della donna nella società moderna

ci ha spiegato che la sua azienda si schiera accanto alla “famiglia sacrale” e che gli omosessuali possono fare quello che vogliono “senza recare disturbo”.

ora, io la sua pasta non la mangio, di norma. non per motivi ideologici, ma perchè mi piace meno di altre. diciamo che la compro se sono in vacanza all’estero, perchè altro, fuori di qui, non si trova. mangio i suoi biscotti (no, io no, chè non sono molto biscottara, ma i miei figli sì), non di preferenza (anche qui, ci piacciono di più i novellini o le gocciole), ma li mangio. sorvolando sul gusto, però, che un personaggio che dirige una delle aziende più grosse in italia (nel mondo? forse, anche) si permetta di dire ‘ste cazzate, mi fa venire l’eczema.

non faccio parte di una famiglia sacrale. mi ero anche sposata in chiesa, ma ora mi ritrovo a far parte di una famiglia composta da mamma, figlio e figlio. e, per parte della settimana da mamma, figlio, figlio e papà con figlio e figlia. mamma e papà, però, sono mamma per due e papà per gli altri due. non siamo i soli. accanto a me vive un’altra famiglia a metà, di fronte un’altra. sulle famiglie degli amici dei miei figli sorvolo, perchè credo che i non sacrali battano i sacrali alla grande. sopra di me, invece, vivono due belle donne che si amano e che non possono adottare perchè in italia si preferisce lasciare i bambini in casa famiglia, piuttosto che lasciare che siano adottati da genitori gay o da genitori single. scelte. scelte che non condivido, ma che resteranno in vigore finchè ci sarà qualcuno che la pensa come quel simpatico capellone che fa la pasta blu con l’etichetta rossa e bianca.

lo ascoltavo, mentre parlava (ero in macchina: ho pure rischiato di finire contro il bus, per colpa sua), e mi veniva l’eczema dappertutto.

sì, perchè, in mezzo a queste due simpaticissime, bigotte, omofobe cazzate, ha sentito il bisogno anche di parlare della donna, la donna che è “una persona fondamentale per la pubblicità” e che “in tutti i paesi del mondo è estremamente usata”. usata. usata. usata come si usa un fazzoletto di carta? usata come si usano un paio di mutande? usata. guido, guidino mio, amore della mamma, la mia maestra diceva: “pensa, prima di parlare”. io ti dico, invece, pensa (se ci riesci, perchè il dubbio, mi permetterai, è lecito), poi, dopo che hai pensato, taci, fa’ un piacere.

mi fermo. mi fermo e continuo a grattarmi l’eczema che quel deficiente mi ha fatto venire. e vi lascio con questa meravigliosa risposta:

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diarrea e ramadam

solo una volpe del deserto come me può offrire un panino (non al prosciutto, almeno quello) a Mario, mussulmano, in pieno ramadam. ma Mario (perchè li chiama tutti così, gli italiani) ride, perdona, apprezza il gesto e chiede, invece, se gli tengo il borsone rosa a fiori dove tiene le borse da vendere, mentre si fa un tuffo. così, si parla, si fa amicizia. si scopre che ha pure una laurea (in filosofia…), in nigeria, dove ha lasciato la moglie e tre bambini, come te, vedi?, solo che tu li hai qui vicino, mi dice. e si scopre che quel tipo muscoloso e abbronzatissimo (con la faccia da culo, letteralmente) che gli compra un sacco di roba è un poliziotto. in vacanza. ah, però, coerente, l’uomo delle forze dell’ordine, commento. va be’, dai, almeno tu ci guadagni qualcosa, no?, chiosa la Pimpa. e, così, si scopre che quella faccia da culo (a questo punto non solo per i lineamenti) le borse non le paga. se le fa regalare. ma scherzi, Mario?! ma mandalo a cagare, scusa!! no, non lo fa, perchè, dice, almeno non mi denuncia.

squallido soggetto. che i soldi che risparmi per compare le borse (e le scarpe todds e le ciabatte gucci, pare) ti vadano tutti in imodium.

(e, quindi, sì, siamo di nuovo, brevemente, in vacanza)